Dell’utilità dei social

neanche linkedin non serve a nulla.

oltre un anno di presenza sul social e nessuno mi ha mai contattato. più o meno un centinaio di visite al mio profilo ma nessuna degna di nota. e comunque, ripeto, nessuno mi ha contattato.

il mio CV non vale un cazzo, praticamente, decenni di sopportazione e di presa in carico di qualunque lavoro rognoso non hanno portato a nulla. nel 2021 le aziende non sono interessate al mondo web, social, grafica e quant’altro, evidentemente.

anni e anni di CV inviati all’azienda di materie plastiche dietro casa e scopro oggi, sempre su linkedin, per puro caso, che è stata assunta una neo laureata in “marketing intergalattico” come “social media specialist”. assunta lo scorso anno, fresca fresca. i miei 38 CV via email, sito e uno consegnato anche a mano

circa un anno fa evidentemente non sono stati giudicati interessanti.
ok.

spero di vincere alla lotteria così chiudo definitivamente con questo paese di merda.

My favorite things

le biglie di vetro, ruvide, sbeccate.il pavimento di legno con le assi piccole, chiare, sconnesse, scricchiolanti.il letto in ferro che non si capiva neanche se c’era un materasso.

le lenzuola profumate d’aria.il copriletto beige, dallo spesso tessuto a coste.

i vecchi quadri con le foto di chi non c’è più, che mai una volta ho ricordato alla fine chi fossero, nonostante più di una volta una spiegazione mi è stata data.
il gallo che cantava, la sveglia gigantesca che ticchettava nell’altra stanza e io, al suo ritmo monotono, mi addormentavo.

“mi dondoli il letto?”. e si sedeva a terra e lo muoveva per farmi addormentare.

la cassetta di lamiera grigia con le tende di tessuto ricavato da scampoli di quelli che adesso so essere stati divani e cuscini. gli adesivi profumati, il vecchio cancello verde, con la rete e l’uncino per chiuderlo.

la capretta, i coniglietti, le galline, i chiodi e il martello, i fili, gli stracci che puzzavano di vecchio, la vecchia cesta dove ficcavo la testa in cerca di scampoli per travestirci e giocare a fare gli spettacoli, costringendo tutti ad assistervi, nel gelo della vecchia cucina, semibuia.

te vecchie tende usate come sipario, da smontare ogni volta, appese alla buona con una corda sui chiodi delle travi del soffitto dove lui teneva arnesi e quant’altro.

l’odore del vino, la ripida cantina con l’interruttore nero, di quelli con la manopola da girare.

le porte di legno fatte di assi inchiodate alla buona, l’odore del legno, cataste ammucchiate ovunque, a seccare, per la stufa, per l’inverno.

il bucato steso, il palo di legno per sollevare il cavo dove pesanti lenzuola venivano stese, all’ingresso dell’orto.

l’altalena, il dondolo, la cavallina, le biciclette strane, la “pitaci” viola che loro portavano in campeggio.

le automobiline di plastica a pedali, una rossa e una blu, con gli adesivi e crepi in ogni dove per via degli scontri tra noi, ridendo.

il mangianastri nero, le canzoni in cassetta, messe e rimesse mille e una volta.
i canarini, le invenzioni sempre in cantiere, sgabelli, panche, la colla e la saldatrice, la morsa, il trapano, la piccola zappa che usavo sempre perchè era l’unica leggera, della mia misura.

i mantelli verdi, il bigliettino di carta nascosto dentro un foro nel muro, la caldaia, il vicolo cieco dietro la legnaia, le galline che scavavano il terreno e le uova da andare a recuperare nella cesta in alto, sempre col terrore dei temuti pidocchi che io pensavo di poter vedere a mucchi, rannicchiati in qualche angolo del soffitto e invece, ovviamente, non è così che funziona.

la grande gabbia con l’uccello nero, la tartaruga, il grano e il mangime, i frutti, l’uva e la vendemmia, il motore per pompare acqua, le guide tv scadute impilate in cucina.

l’acqua buona che usciva dal vecchio rubinetto, gelida e buonissima, l’acqua migliore del mondo, che cadeva sul lavandino di marmo grigio e scolava oltre la parente lungo il tubo di scarico, appena sotto il balcone di legno verde con la rete bianca fissata tra le sbarre, bucata appena nel punto dove era legato lo spago per chiuderla da dentro.

il salottino, vecchio ma nuovo di zecca, mai usato, il grande quadro col fienile e lo zampognaro, il gufo, lo zoccolo di legno con la spazzola appeso al muro, ricordo di chissà qualche viaggio fatto da chissà chi.

la dama in ceramica in camera da letto, rotta e sbeccata ma lì da sempre, come i nonnini seduti sulla panchina al piano di sotto, lì da sempre, con la pipa in bocca e il bicchiere in mano.

i fumetti, la tenda che nascondeva lo scaffale a muro che a sua volta chiudeva al porta tra le due case, la maniglia che girava a vuoto e gli arredi in ottone che usavo per raccogliere le briciole del pane mentre guardavo la tv in salotto, quella grande tv, grigia, che poi ho scoperto spegnersi sempre “per mancanza di corrente” guarda cosa quando lei voleva che uscissi a giocare per non passare chiuso in casa tutta la giornata.

(altro che le donnucole di oggi tutte tablet, console, netflix e iphone).

la stufa color crema, il panettone cotto a legna (torta margherita, in realtà), il tiramisù, la stufa bianca dentro la baracca, il rumore di porte e portoni, ciascuno il suo, inconfondibile.

il profumo dell’orto, la terra, il legno, chiodi e martello per giocare.

a casa tua ho avuto l’infanzia più bella che si possa desiderare.